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La moda veste "green"

08 Maggio 2018

La moda è un settore in forte espansione, alla ricerca costante di nuovi materiali, sempre più all’avanguardia. Gli abiti delle griffe italiane così come gli accessori ad essi connessi, sono diventati nel tempo quasi dei gioielli, a volte esaltati fino all’eccesso. È innegabile che l’acquisto di un abito che abbellisce il proprio corpo sia uno dei temi su cui fanno leva le maggiori case di moda e che, proprio sul messaggio promozionale Io valgo, fanno centro nella maggior parte di noi (compresa me, lo confesso!). Negli ultimi anni, l’armadio di ciascuno di noi si è gonfiato in maniera esponenziale. Infatti, la varietà di abiti da indossare insieme all’innegabile voglia di cambiare e di acquistare capi sempre più esclusivi, ha contribuito a potenziare questo settore.


Attualmente, si stima che il fatturato della moda italiana vale circa il 4% del PIL italiano. Nel 2016 secondo la Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI), il settore moda (tessile, pelletteria, abbigliamento e calzature) ha fatturato 63 miliardi di euro; se si considerano i settori ad essi connessi come ad esempio la gioielleria, la bigiotteria, la cosmesi e gli occhiali si arriva a 84 miliardi di euro. I dati del 2017 non sono ancora definitivi ma secondo le stime del CNMI, le vendite della sola moda saranno intorno ai 65 miliardi di euro.


Da qualche anno in Italia il settore della moda si è avvicinato al tema della sostenibilità, interesse che si è esplicitato, nel 2012, nel “Manifesto della sostenibilità della moda italiana” pubblicato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare. Un primo passo per migliorare sensibilmente le cose in tema di sostenibilità all’interno delle case di moda. I buoni propositi del CNMI si sono poi concretizzati con una serie di pubblicazioni: le Linee Guida sui requisiti eco-tossicologici per gli articoli di abbigliamento, pelletteria,calzature ed accessori, i Principi CNMI per la sostenibilità del retail  e le Linee Guida sui requisiti eco-tossicologici per le miscele chimiche egli scarichi industriali delle aziende manifatturiere. Questi argomenti sono stati discussi ampiamente lo scorso marzo a Milano durante la seconda edizione dell’International Roundtable sulla sostenibilità di CNMI in partnership con Swarovsky, proprio per promuovere lo sviluppo di pratiche sostenibili all’interno della filiera dell’industria tessile-moda.


Ma c’è chi è andato oltre e ha iniziato a pensare come produrre tessili da prodotti di scarto, chiudendo finalmente il cerchio e re-impiegando nuovamente ciò che ha ancora un potenziale economico e che se non venisse recuperato, verrebbe perso definitivamente.


Intorno a questo nuovo business sono nate delle vere e proprie aziende ma anche delle semplici associazioni come ad esempio il comitato Bollait,  Gente della Lana in Valle dei Mocheni/Bernstol in Trentino. Questo comitato nasce nel 2016 con lo scopo di acquistare la lana dai pastori locali che altrimenti verrebbe smaltita come scarto per poi inviarla in Austria, dove viene lavata e commercializzata. Questa associazione alimenta il business dei pastori e allo stesso tempo punta a realizzare delle trapunte fatte in lana, come alternativa ai derivati del petrolio.


C’è chi è partito da scarti di produzione tessile come ad esempio Rifò, un’azienda di Prato, nata nell’ottobre del 2017, dove attraverso un’accurata selezione per colore operata dagli artigiani, gli scarti tessili vengono stracciati, riconvertiti in fibre di lana e trasformati in filati, per poter essere confezionati in nuovi prodotti con un notevole risparmio di energia. Inoltre, al fine di evitare lo spreco perpetrato dalle aziende che producono molto di più di quello che siano in grado di vendere, l’azienda produce con la modalità just in time, ovvero solo dopo aver ricevuto l’ordine, così da non creare sovrapproduzione.


Poi c’è chi si è ingegnato e ha brevettato una nuova fibra ottenuta da scarti agrumicoli. Questo è il caso di Adriana Santanocito ed Enrica Arena, due imprenditrici siciliane che hanno fondato Orange Fiber, un’azienda italiana che produce tessili sostenibili dai sottoprodotti agrumicoli partendo dal pastazzo, ovvero lo scarto umido delle arance. Un rifiuto ingombrante che ammonta ogni anno a circa 700'000 tonnellate, una quantità difficile da smaltire interamente anche se viene impiegato come fertilizzante in agricoltura e come mangime per animali. Grazie a questa idea innovativa è nata una collaborazione tra Orange Fiber e Salvatore Ferragamo che ha colto nel pieno la vision dell’azienda.


Tanti spunti interessanti stanno venendo fuori sull’idea di riutilizzare gli scarti che produciamo, stiamo assistendo ad un profondo cambiamento e vediamo come lo scarto può dare vita a nuove idee, a nuove collaborazioni, che arricchiscono il territorio e che rendono più coese le realtà locali, facendo in modo di non perdere il profumo delle cose semplici e genuine.


Scritto da Sara Falsini









Photo by Jason Briscoe on Unsplash

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